la sesta stagione si piega su se stessa, ma sempre ad altissimi livelli
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Come fa una serie come Black Mirror, che ha fatto delle contraddizioni tecnologiche e delle idiosincrasie sociali il proprio cuore narrativo, a rimanere rilevante in un mondo che costantemente continua a superare in assurdità e imprevedibilità le più deliranti delle profezie distopiche? Un’impresa molto ardua, non c’è dubbio, soprattutto visto che l’ultima stagione, ovvero i tre episodi visti nel 2019, sembrava più un esercizio di stile concentrato sulle star protagoniste (Miley Cyrus in primis) che non una vera spinta innovativa. Invece con i cinque nuovi episodi della sesta stagione, disponibili su Netflix dal 15 giugno, la creazione antologica di Charlie Brooker ritorna in qualche modo alla sua essenzialità un po’ cinica, continuando però a sperimentare per vie imprevedibili.

Forse il primo episodio, Joan Is Awful, è quello che più incarna lo spirito di questo ciclo, che sì prende (quasi sempre) spunto dalla tecnologia per mostrarne le conseguenze più assurde sulla nostra vita quotidiana, ma si spinge a una riflessione più ampia e trasversale sui vari livelli di follia tutta umanissima. La protagonista dell’episodio, Joan (Annie Murphy di Schitt’s Creek), è una persona che si definisce mediocre ma che scopre di essere al centro di una serie che racconta ed esaspera la sua stessa vita, ovviamente a sua insaputa. Sullo schermo è interpretata da Salma Hayek (anzi, da una versione digitale di Hayek), ma poi si scopre che i livelli di bambole russe, di scatole nelle scatole, mette di fronte a un meccanismo narrativo avvincente e sempre inaspettato. Ancora di più, lo streaming al centro dell’episodio, Streamberry – fittizio ma chiaramente ispirato, nei suoni e nella grafica a Netflix – è un pretesto per raccontare in modo arguto e metanarrativo le nostre abitudini di intrattenimento, sempre più voraci e ombelicali.

Il tema del consumo e degli interessi morbosi è in effetti ricorrente in questa stagione, come per esempio in Loch Henry dove una coppia di filmmaker si aggira per un villaggio scozzese per girare un documentario naturalistico ma, quando scopre la vicenda di un serial killer che ha terrorizzato la zona, spinge all’inverosimile per realizzare un true crime che finirà per accendere la loro sete di voyeurismo e successo, dimenticandosi delle vittime. Un po’ quello che succede anche in Mazey Day, dove una fotografa (Zazie Beetz) prima lascia la professione di paparazzo per i sensi di colpa, ma poi finisce per inseguire una celebrità che si ritira in un capanno per fuggire da un segreto traumatico; anche qui si parla di pulsioni che non si riescono a controllare, anche qui Brooker sfodera i suoi colpi di scena sempre gustosi e soprattutto c’è una scena finale di ambiguità particolarmente raffinata e crudele.



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di Paolo Armelli www.wired.it 2023-06-15 13:44:50 ,

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